Titoli troppo sensazionalistici
No, non è fare del “benaltrismo”. In questi mesi abbiamo assistito all’ennesimo rinfocolarsi di polemiche, accuse e campagne (dis)informative sul ruolo della caccia nella perdita di biodiversità. Accade ciclicamente, in particolare quando, come in questo caso, si tenta di mettere attenzione in Parlamento a una revisione e modernizzazione – tutto il contrario di un ritorno al passato, quindi – della legislazione in materia. Titoli sensazionalistici ben suggeriti, qualche commento indignato sui social da parte dei consueti influencer verdi ed ecco che si torna a indicare i cacciatori come la principale minaccia per l’ambiente. Ma è proprio così? I dati, oggettivi e ufficiali, ci sono e sono noti da tempo. A darli non è una associazione venatoria, ma l’Agenzia Europea dell’Ambiente e basta volerli leggere per veder emergere una realtà completamente diversa. Si scoprirebbe così come la pressione esercitata dalla caccia sulle specie e sugli habitat europei sia minima, quasi trascurabile. Non marginale per opinione, ma per numeri: meno dell’1% delle pressioni più elevate segnalate dagli Stati membri della UE riguarda l’attività venatoria.
Le vere cause
A incidere in negativo sulla biodiversità sono altri fattori, molto più profondi e strutturali: la trasformazione dei suoli; l’agricoltura intensiva; la frammentazione degli habitat; l’invasione di specie aliene; l’inquinamento; le infrastrutture spesso inutili; i cambiamenti climatici, innegabili quale ne sia la causa… Tutte forze che agiscono su scala continentale e continua, alterando gli equilibri ecologici molto più di quanto possa fare una pratica regolamentata, limitata a poche settimane l’anno e controllata come la caccia. Perché allora il mito della caccia causa di tutti i mali dell’ambiente persiste? Perché è facile, perché nell’immaginario collettivo di chi non la conosce e poco sa di ambiente, campagna e natura, trasmette emozioni, simboli, immagini forti. E perché volutamente spesso si fa in modo di confondere ciò che è legale con ciò che non lo è, finendo per far coincidere l’attività venatoria con il bracconaggio; la richiesta di adeguare la nostra legislazione in materia al resto dell’Europa come “il far west venatorio”; le cacce tradizionali – e molto di quanto appartiene alla ruralità – come crudeli anacronismi da cancellare. Una presentazione distorta nei contenuti, ma ben confezionata e di facile presa presso il grande pubblico, sempre urlata molto più forte dei chiarimenti e della verità che possiamo contrapporre.
Non minaccia, ma custodi
Eppure i cacciatori italiani, così come i loro colleghi europei, non solo non rappresentano una minaccia per la biodiversità, ma ne sono spesso custodi silenziosi. Sono loro a mantenere habitat, a ripulire canali e sentieri, a segnalare anomalie nella presenza di specie invasive, a collaborare nei monitoraggi scientifici, a investire migliaia di ore in lavori volontari che nessun ente pubblico riuscirebbe a sostenere da solo. In molte aree rurali, senza il presidio dei cacciatori il territorio resterebbe privo di occhi e mani capaci di intervenire con competenza. La verità è che la conservazione richiede pragmatismo, non slogan. Serve costruire alleanze, non nemici immaginari. Ignorare il contributo del mondo venatorio significa perdere un pezzo importante della gestione attiva del territorio, proprio nel momento storico in cui le sfide ambientali chiedono più collaborazione e meno divisioni.
Gli interrogativi da porsi
Chi ha davvero a cuore la biodiversità dovrebbe interrogarsi sulle cause reali del declino, non sulle percezioni o le ideologie. Dovrebbe chiedere politiche agricole che concilino ancora meglio il giusto reddito dell’impresa con la sostenibilità; piani di gestione che non restino solo sulla carta; interventi seri contro inquinamento, consumo di suolo, cattiva gestione delle acque o i mille insensati vincoli a una gestione razionale di boschi e foreste; il paesaggio sacrificato sull’altare della grande illusione green e l’assenza in molte zone di una seria pianificazione territoriale. Dare la colpa alla caccia significa guardare dalla parte sbagliata. Facile, ma sbagliata. Oggi più che mai abbiamo bisogno di un dibattito onesto, basato sui fatti e non sulle emozioni. Sì, la natura è sotto pressione, ma non per colpa dei cacciatori. E continuare a ripetere il contrario non aiuta né la fauna, né la società, né tantomeno il confronto democratico, ma solo i bilanci di molte associazioni ambientaliste e anticaccia. (Marco Ramanzini – FIDC).



































