Conseguenze da valutare
Le esagerazioni sono spesso una costante quando viene impostato un discorso anticaccia. Ne è un chiaro esempio quanto fatto dalla LAV (Lega Anti Vivisezione) che si è affidata a una psicologa e psicoterapeuta per esaminare le conseguenze di un padre di famiglia cacciatore sui suoi figli. Tra provocazione e discorsi lasciati a metà, questa disamina non può non innervosire il mondo venatorio.
Le armi in dotazione
L’analisi inizia in questo modo: “Pur in mancanza di statistiche, è lecito ipotizzare che i cacciatori siano anche padri di famiglia, abbiano figli e nipoti non diversamente da chi cacciatore non è. È quindi necessario chiedersi se e come il loro essere cultori di questa attività si rifletta sui più piccoli, trattandosi di attività che non è circoscritta alle ore delle famose battute, ma che inonda l’identità stessa e lo stile di vita di chi la pratica. A cominciare dal dato di fatto che, nelle loro case, vengono custoditi (speriamo con adeguata prudenza) i preziosi ferri del mestiere: le armi. Una presenza che, nella sua costanza, non provoca inquietudine, ma viene normalizzata e genera assuefazione: un bambino che da sempre le vede non si interroga sul perché ci siano, esattamente come non si interroga sul perché ci siano l’aspirapolvere o il forno a micro onde. A differenza delle armi in dotazione alle forze dell’ordine e di quelle magari destinate al tiro a segno, per altro di solito non esibite, il problema è che l’essenza di un’arma da caccia consiste nello sparare, ferire e uccidere, azioni che, almeno fino all’adolescenza, verranno anch’esse normalizzate“.
I comportamenti del cacciatore
L’esame della professionista prosegue: “Trattate da oggetti di culto, capaci di trasformare in realtà il sogno sognato del prossimo trofeo, costituiscono l’elemento centrale di una serie di comportamenti che vanno dalle levatacce antesignane del cacciatore di famiglia, ai suoi rientri, appagati se con accettabile numero di vittime portate a casa con orgoglio, o accompagnati da malcelati malumori se il bottino è scarso. E i bambini impareranno a convivere con queste atmosfere e a riconoscere gli stati d’animo: l’ansia dell’attesa dei giorni di caccia, i racconti carichi di eccitazione per l’avvistamento dell’animale da colpire, il non dargli tregua fissandolo nell’occhio del mirino o inseguendolo insieme ai cani godendo del suo terror panico. E finalmente colpirlo. Per valutare il peso di tutto questo, va ricordato che i primi anni di vita sono fondamentali per creare le proprie rappresentazioni del mondo e dei valori della vita, frutto del modellamento educativo proveniente soprattutto dalle figure parentali, basilare nella strutturazione del carattere e della personalità.I bambini, in estrema sintesi, imparano ciò che viene loro insegnato con le parole, ma ancora di più con i comportamenti: il giusto e lo sbagliato, il bene e il male sono concetti che prendono forma in funzione delle convinzioni e dell’accezione che i grandi di riferimento, che per molti anni saranno da loro considerati depositari della verità, danno alle situazioni“.
Conclusioni
Le conclusioni sono altrettanto assurde: “Non esiste dubbio che la violenza contro gli animali non umani, tanto più se gratuita, vada nella direzione dell’introiezione di modelli aggressivi e prevaricatori, basati su un unico diritto riconosciuto: quello della forza. Vale la pena ricordare che, dal 2005, la Violenza Assistita, quella quindi non subita in prima persona, ma come testimone di quella agita su altri o percepita o anche solo sentita raccontare, è ufficialmente entrata nel novero delle Violenze Sfavorevoli Infantili, sfavorevoli rispetto ad un sano ed armonico sviluppo della personalità. E quella agita sugli Animali è a tutti gli effetti inserita tra le forme prese in considerazione: al di là delle teorizzazioni, emerge in modo drammatico dai racconti di adulti che mai hanno potuto dimenticare lo strazio vissuto da piccoli assistendo allo scempio su un animale, spesso ad opera dello stesso padre. È doveroso quindi che tra le ricadute dell’attività venatoria non venga ignorato né sottostimato il peso di un’implicita educazione al non rispetto per esseri senzienti, dotati di consapevolezza, vulnerabili al dolore fisico e al tormento emotivo, trattati alla stregua di cose. Tanto più nella diffusa ferocia di questi tempi che non risparmia umani e non umani, si dovrebbe davvero cominciare a riflettere se tale tirocinio non sia da considerare problema sociale, portatore di valenze francamente preoccupanti, anziché condotta da liquidare con noncuranza come affare di famiglia“.